la mostra
NON TUTTI I MASCHI VENGONO PER NUOCERE




La carezza della mantide
“Il 13 settembre 2010 mi chiama l’avvocato: «Siediti che il giudice ha deciso». Mi siedo e penso a quanti soldi mi costerà tutto questo: due figlie, una separazione, una ex compagna incazzosa. Secca: «Te le ha date tutte e due». Dovrei essere felice, invece piango. Piango perché penso che non ce la farò mai. Piango perché penso al dolore che prova la loro mamma. Piango perché sono sicuro che anche Alice e Marta
stanno piangendo» (…)”.
Così comincia il libro che ho dedicato alla mia esperienza di padre. Quel 13 settembre 2010, però, segna non solo il mio destino di padre single di figlie femmine, ma anche la mia epifania di maschio, perché -a conseguenza di quella sentenza inopinata- ho visto cose che un padre raramente sperimenta, spesso domandando consiglio ad altre donne per avere, almeno di seconda mano, la loro prospettiva sul ciò che conta davvero nella vita: sesso, sindromi premestruali, improbabili acquisti sul mio account Amazon, tanga invisibili su minigonne ascellari, pillole del giorno dopo, pubi glabri, preservativi, trucchi dark e crisi sentimentali. Adesso hanno più di 20 anni entrambe, spendono poco di terapeuta, non si drogano e sono persone di buon senso. Quindi, considerando il taglio approssimativo del mio approccio, posso affermare che più che la pedagogia mi ha salvato il culo. E le donne. Sia chiaro, nulla di eroico nel crescere due figlie femmine da solo, ma istruttivo sì!
Anzi: padri di figlie femmine, non delegate alle mamme i lati più femminili della faccenda. Loro già sanno come è fatta una donna, ma per voi è un’occasione irripetibile… Pensando a loro, donne, tra le mani di uno come me (!), ho capito meglio le donne in generale e me stesso. Certo, momenti brutti ne ho vissuti, ma non quelli che ci si aspetterebbe, tipo il minestrone di gelosia, amore e sesso. Una passeggiata rispetto alla grande palude dell’adolescenza, dove mi sono dovuto inventare padre, fratello maggiore, carabiniere buono, cattivo, amico, amico degli amici, serio, buffone e persino maturo ma -grazie a dio- molto di rado. Ma, come papà, il peggio è stato, di nuovo, un momento in cui mi sono trovato disarmato: io, mai bocciato, di fronte alle loro bocciature. E non c’è niente di più frustrante che scoprire di non possedere non dico un coltellino svizzero di genitorialità responsabile, ma almeno una brugola della misura giusta per mettere in quadra un fallimento. Se siete stati studenti modello, rassegnatevi: il vostro curriculum scolastico non si trasmette per DNA. Non avrete soluzioni e risposte, non darete conforto, sarete un inutile complemento di arredo che non capisce come si possa vivere un’estate di risate e schizzi con una tale onta sul cuore.
Il momento più commovente? Una sera di karaoke con loro a sgolarsi di Carrà e Guccini, Ambra e Finardi. Mi sono commosso, e anche loro ci piangono, complici, facendomi sentire un papà realizzato. Adesso sono grandi, forse adulte. Mi sono costate come due Ferrari e non so nemmeno cosa gli ho davvero insegnato. Forse a capire i maschi come me e a non fidarsene troppo. Forse a non prendere troppo sul serio le cose serie, forse anche solo a distinguere un comico bravo da uno scarso. Di sicuro cucinano meglio di me, vestono meglio di me, viaggiano più di me e si preoccupano per me più di quanto io non mi sia preoccupato per loro. E hanno fatto tutto da sole, o quasi. Magari
qualche volta ho suggerito di allungare la gonna, di non menarsela troppo per un amore andato a ramengo, di scegliere -inascoltato- una facoltà che profumasse di reddito. Sicché adesso sono sempre meno il papi bancomat del recente passato e sempre più un vecchio
brontolone, a volte da accudire, a volte da sgridare, o da consultare secondo il motto ‘Tu sei ciò che io sono stato, io sono ciò che tu sarai’: qualcuno che, solo per aver già vissuto, sa leggere meglio tra le pieghe.
Ma vi guardo da fuori e vi lascio vivere, non perché sia stanco di fare il padre ma perché è più divertente rivivere attraverso di voi il mio primo diventare adulto.
In tutto questo caos posso dire di averci capito qualcosa? Chi lo sa, mi resta questa sensazione impalpabile che siate e sarete l’unico vero orologio della mia vita. Ho questo ricordo di quando siete nate e per la prima volta ho visto il tempo correre. Mentre vi tenevo in braccio, pensavo a noi un giorno da qualche parte nel futuro. E per la prima volta ho avuto 60 anni. Non la fatica dei 60, 60 anni come li puoi immaginare a 40: senza mal di schiena, i buchi di memoria e le lenti bifocali. Insomma, i 60 anni della differenza tra voi e me, che ne avreste avuti 20. E mi auguravo che sarei stato un padre illuminato, tipo un quarantenne che interpreta la parte di un sessantenne: capace di ascoltare la vostra musica e dire ‘Ma sì, interessante ‘sta roba’. Vi guardavo per la prima volta e mi dicevo‘…è tutto a posto, sarà bellissimo’. Perché mica lo puoi sapere prima come sarà 20 anni dopo. Sarà bellissimo, sarà bruttissimo, più probabilmente sarà
così e così. Quasi certamente prima o poi sarà “Papà, lasciami qua che mi vergogno”.
Perché, sia chiaro, a fare il papà sbagliare è nella norma, mi spiacerebbe solo avervi deluse.
Questo volevo raccontare. Dello strano mestiere di essere padre.
Papi, stanotte ho fatto un brutto sogno
Cosa hai sognato?
Che diventavi nonno
Nonno cosa?
È solo un sogno, papi
Non è un sogno, è un incubo, amore
Non vorresti diventare nonno?
Stai cercando di dirmi qualcosa?
Hai mica voglia di anticiparmi i soldi della pillola?






Tutte le donne sognano il grande amore
“A Ebolowa, in Camerun, nel mio Paese, ci sono tante donne che fanno la prostituzione. Prima, quando ero un giovane sacerdote, avevo solo disprezzo e condanna per queste donne”.
In un italiano quasi perfetto, con qualche venatura di francese, Jean Jacques afferma con sincerità disarmante quello che provava da ragazzo verso le donne che “facevano la professione” su strada, che lui aveva avuto modo di incontrare quando era alle prime armi con la sua vocazione cristiana.
“Adesso sono diventate mie amiche, non le condanno più, cerco di capire perché sono sulla strada e di aiutarle”. Prosegue così il parroco del Camerun, ora – temporaneamente – in un piccolo villaggio della regione Île-de-France, Nangis, un’ottantina di chilometri a sud di Parigi. Fa il parroco anche qui, ma il suo cuore è rimasto nel Paese per il quale spende gran parte delle proprie energie e al quale è legato a doppio filo, da radici di nascita e dall’affetto in cui è imbrigliato con le donne e i bambini del luogo.
“Tra le cose più belle che ho fatto – prosegue – è stato fondare il movimento delle donne Les Dames Apostoliques, presso l’Arcidiocesi della città di Ebolowa: un movimento fortissimo, più di Cinquecento donne che si aiutano tra loro: l’istruzione in qualsiasi ambito è per le donne da parte di donne. Imparano l’igiene, la salute, quali sono i diritti di una donna, imparano a leggere la Bibbia, anche; si scambiano conoscenze, parlano, si ascoltano.
Uno spazio interamente femminile dove sentirsi protette e capite.”
Dalle parole di Jean Jacques traspare proprio che questi progetti, che lo vedono accanto e in difesa delle donne, con ogni probabilità sono i progetti che meglio gli si cuciono addosso. Il parroco ci racconta di come l’associazione Les Dames Apostolique sia diventata un posto in cui, grazie all’intervento di esperte, dottoresse, psicologhe che utilizzano come supporto ai loro interventi anche docu-film a tema, persino le donne senza istruzione abbiano potuto essere edotte sulle questioni legate alle donne africane, e su argomenti molto delicati quali la poligamia, lo stupro, l’incesto, la circoncisione femminile, la prostituzione…
Ed è ancora di prostituzione che Jean Jacques vuole parlarci.
“L. era una giovane prostituta di ventiquattro anni, madre di due bimbi; nel 2012 è venuta da me a raccontarmi la sua storia. Suo marito l’aveva lasciata con i figli, senza un euro, non aveva un lavoro. Non aveva nulla per far vivere i suoi bambini. Da noi in Camerun la legge non obbliga il marito a prendersi cura dei figli. Si è messa sulla strada. Le abbiamo donato 500 € con i quali ha avviato una piccola attività, finalmente è uscita dalla prostituzione. Tante quelle come lei; alcune erano vergini prima di avventurarsi in questo terribile “mestiere”, sognavano un grande amore, nessuna voleva fare la prostituta ma le difficoltà della vita le hanno messe nelle mani di cattivi consiglieri”.
Jean Jacques conosce una quarantina di donne, lì in Camerun, con la stessa storia di L., di età compresa tra i diciassette e i trentaquattro anni: il loro obiettivo è quello di uscire dal giro della prostituzione; hanno tutte un sogno nel cassetto. Si prostituiscono per uscire dalla miseria, per la loro famiglia, per un pezzo di libertà. Ma vorrebbero lavorare. “Bastano 500 € – davvero!” solo cinquecento euro per ciascuna di loro, affinché possano avviare una piccola attività che restituisca a queste donne la propria dignità.
Jean Jacques Minkandé, sacerdote del Cameroun, ora in Francia ad esercitare la funzione di parroco, è in prima linea nella tutela dei fragili, dei bambini e delle donne.
Pregevole il suo obiettivo come Direttore dell’orfanotrofio Don Bosco di Ebolowa, attività che segue se pur da lontano, assieme a Madre Ekemela Françoise: trovare denaro per mandare avanti la scuola dal punto di vista didattico ed occuparsi del sostentamento delle ragazze e dei ragazzi, della loro salute, della loro integrità psicologica, morale e fisica.
Attualmente in questa scuola ci sono trentadue bimbi e bimbe, diverse suore e molti volontari che danno una mano.
Ma Jean Jacques ha fatto molto di più: sempre a Ebolowa, o meglio, nei pressi della città, nel cuore del piccolo villaggio di Melane, il parroco ha fondato una scuola per ragazze. Jean Jacques aveva semplicemente notato che in questo paese i figli maschi venivano mandati a scuola per ricevere un’istruzione, le femmine invece venivano iniziate in casa ai lavori domestici.
“Le figlie erano solo buone a imparare a cucinare… La scuola è l’aiuto più importante che si possa dare ad una ragazza per essere autonoma, imparare a pensare, conoscere i propri diritti, la propria dignità, per imparare un mestiere…”
Ecco, per questi motivi Jean Jacques ha creato una scuola per le fanciulle a Melane.
“Vorrei che imparassero ad essere libere e a trovare un lavoro”.
Ha scritto due libri per bambini in italiano (Zongo e i suoi “strani” amici bianchi e Le più belle cantafavole africane) per mostrare al giovane pubblico dei lettori italiani la bellezza e la ricchezza della cultura e dell’anima africana.






Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo
Chicco, Maestro di arti marziali, che da anni insegna autodifesa ai suoi allievi, ha fatto del suo lavoro una vera e propria missione. Ecco perché a maggio del 2015 è partita la prima edizione di un corso gratuito rivolto esclusivamente alle donne, con lo scopo di insegnar loro a proteggersi e a proteggere i propri cari. Il corso è della durata di un mese, viene riproposto, quando possibile, annualmente sempre a titolo gratuito: in queste lezioni il Maestro invita le donne ad “assaggiare” tanto i rudimenti pratici quanto la filosofia che ne è la linfa vitale.“Qual è la prima regola della difesa personale?” Saper rispondere adeguatamente ad un’aggressione? Saper maneggiare un’arma? Frequentare corsi di autodifesa?” Sempre queste, le domande con le quali C. esordisce al corso, e la risposta è una sola: “La prima regola della difesa personale è la stessa che viene insegnata ad ogni corso di primo soccorso, ovvero: non mettersi in situazioni di pericolo!” Così come sette anni addietro anche oggi il suo discorso parte proprio da qui: “La vita mi ha insegnato che non si può costruire nulla se non lo si poggia su di una buona base. La base della difesa personale è in primo luogo prendersi cura di sé stessi, cercando quindi di vivere una vita sana, ben distanziata da tutti quei comportamenti che possano portare, anche inconsciamente, all’autolesionismo. Se mi prendo cura di me stesso e vivo con diligenza mi garantisco di non mettermi in condizioni di pericolo e di non esserne io la fonte, ma non ho nessuna garanzia che il pericolo si manifesti sotto altra forma, che sia al di fuori del mio controllo o che, magari, non interessi me direttamente ma una persona a me vicina. Per questi motivi ritengo importante imparare ciò che può essere utile per togliersi velocemente da situazioni pericolose.”
Le parole vibrano con passione e convinzione mentre Chicco parla di difesa, di tutela, delle allieve che hanno scelto di camminare insieme a lui in questi anni, di come lui stesso cerchi di dare il proprio contributo a chi ne ha bisogno, anzi, a chi ancora non ne ha avuto bisogno, e a chi forse ne avrà, in modo da arrivarci con la preparazione necessaria.
“A volte sono stanco: sembra che per le donne non ci sia mai una chance per uscire dal ruolo di ‘vittima’. È una concezione che rimbalza ovunque fra giornali e telegiornali, che a furia di essere ripetuta ha come conseguenza il fatto che le donne stesse inizino a crederci. Le sento dire che si affidano alla loro buona stella, come se questa possa essere l’unica soluzione possibile per non incorrere in situazioni di violenza e abuso. La verità è che non è così: non è vero che sperare o pregare sono gli unici modi per affrontare la situazione.
Quando mi chiedono di raccontare una storia ad esempio del fatto che esiste sempre una possibilità di scelta parlo della ragazza di Carpi che è salita alle cronache nazionali qualche anno fa: R. che, uscita da un locale con il proprio fidanzato, è stata accerchiata da una decina di uomini con l’intenzione di derubare la coppia e abusare di lei. R. non solo è riuscita a non soccombere all’assalto, ma ha anche salvato il fidanzato da un violento pestaggio. R. era campionessa mondiale in carica di Muay Thai, e nelle interviste rilasciate a seguito dell’aggressione ha più volte affermato che le arti marziali le hanno salvato la vita. Certo, per quanto ci si possa preparare ad un’aggressione, per quanto ci si alleni, non si può essere certi a priori di quel che avverrà, di quale sarà la reazione…”Purtroppo, quindi, sono ancora poche le donne, giovani e meno giovani, che – spinte dalla curiosità, dalla paura, da un reale movente (trovarsi in situazioni di pericolo, sentirsi minacciate, ecc.), dal desiderio di aumentare la propria sicurezza ed autostima – decidono di iniziare un percorso di autodifesa. Motivo per cui dopo le prime edizioni il corso gratuito non ne ha viste altre realizzarsi: per mancanza di richieste, con gran dispiacere del Maestro.
“Probabilmente su questo incide anche – dice Chicco – l’espressione difesa personale, per me poco felice, perché fa i conti con il mondo delle palestre dove viene impropriamente utilizzata per attirare non tanto allieve ‘da crescere’, quanto clienti da spennare dando loro l’illusione di aver acquisito capacità difensive che, tuttavia, mancano della necessaria efficacia per garantire loro il risultato sperato, oltre che della giusta filosofia per applicarle con coscienza.”
Ed è qui sta la differenza: Chicco agisce con passione, ‘suggendo’ costantemente ai principi della filosofia orientale, ispirandosi ai valori taoisti dell’equilibrio sinergico tra yin e yang, per veicolare il proprio insegnamento che va ben oltre alla capacità di ‘auto-difendersi’. La sua è una vera e propria disciplina che aiuta nella autostima e nella sicurezza del sé e che vorrebbe trasmettere principalmente alle donne per il benessere psicofisico delle donne.






La Cura
Andrea. Un marito, un padre, un fratello. Sempre accogliente, con quelle braccia lunghe ed ospitali, la figura flessuosa ed elegante. Esistono quegli incastri perfetti e il Gazza è l’incastro perfetto con sua moglie, Francesca. Una combinazione di sensi e di intenti. Andrea e Francesca esistono da sempre e per sempre esisteranno. Lui, anticonformista e avventuroso, lei innamorata pazza del suo anticonformismo e delle sue avventure. Anche quando si è trattato di scegliere per il proprio futuro. “Buttati che tanto ci sono io” e lei si è buttata. Un paio di bracciate e ha trovato la strada. Lui, pronto ad accoglierla di nuovo, ad aspettarla per poi lasciarla andare, sempre così, in una tensione che per loro è stata vita. Ci sono uomini, e Andrea è uno di questi, che incoraggiano, spronano, trovano la propria linfa vitale nel benessere della persona che hanno accanto, uomini-albero che mettono radici e permettono a chi li abita di riposarsi per poi spiccare il volo, restando ben saldi a terra e consentendo di sognare in grande. È andata così anche quando si è trattato di “sognare casa”.
Ci sono uomini che assecondano i progetti e i desideri del proprio partner e gioiscono in modo puro e disinteressato per i loro successi. Andrea, compagno di vita e poi padre meraviglioso, è uno di questi uomini. E allora Andrea è diventato lui stesso la Casa. La Cura. Ha rivelato quella capacità di costruire il senso profondo, il significato della parola casa. O meglio: Andrea era, è, sarà Casa. Non solo accoglienza. Era ed è ciò che contiene e il contenuto, Il creatore e colui che custodisce e cura. Così è stato con l’appartamento di Berlino, voluto, scelto, progettato, abile lui nel vedere gli spazi e la loro funzionalità così come nel curare i dettagli fin nei minimi particolari. Così è stato nell’animarla quella casa, la sua oasi di pace, fare in modo che diventasse l’ambiente accogliente per Francesca e per lui. E poi: per Francesca, Marcel e lui. Perché a un certo punto la capacità di essere compagno si è unita a quella di essere padre, nell’esperienza che lui stesso ha definito ‘la cosa più bella che potesse capitare’. Sempre animato da una cifra non convenzionale, Andrea ha nutrito la famiglia di cibi cucinati con grande attenzione, di sapori unici e di sapere illustrato e raccontato al figlio Marcel per trasmettergli la propria conoscenza, il proprio amore per l’ambiente e gli animali. Ha voluto fargli respirare la natura per tenere il corpo in salute oltre che la mente. Anche quando Andrea si è ammalato, il suo essere accudente e accogliente sono stati per lui momenti ristoratori: l’energia in quegli attimi diventava preziosa, da nutrire con momenti di festa, in un’atmosfera mai banale e triste. Rara e preziosa energia che Andrea doveva centellinare per poterla dedicare agli amori della sua vita. Energia da conservare per essere ancora Casa, per contenere Francesca e Marcel, fino ad assicurarsi che l’abbraccio della famiglia più grande fosse lì per prendere quel suo specifico posto di accoglienza e accudimento.
Andrea è stato un uomo-albero con quelle sue braccia grandi, quei rami lunghi sui quali
Francesca e Marcel sempre troveranno ristoro e dai quali sempre spiccheranno il proprio volo.
“Abbiamo condiviso ogni istante delle nostre vite per ben 23 anni e l’unica cosa che mi dà pace in questo momento é la consapevolezza di esserci amati veramente fino all’ultimo giorno, di un amore vero e sincero fatto di attenzioni reciproche, condivisione, progetti, leggerezza e risate.
Anche l’ultimo pezzo di cammino, il piú duro e doloroso, l’abbiamo fatto insieme mano nella mano, finché tu hai spiccato il volo. Ammira da lassú ogni nuvola, ogni ramo frusciante, ogni raggio di sole, ogni goccia di pioggia: io quaggiú ti cercheró ogni sera tra le stelle del cielo, negli abbracci fraterni di chi ti amava davvero e nel sorriso del nostro Marcel, il dono piú prezioso. Ciao Andre, mi piace credere che un giorno ci rincontreremo. Ti correró incontro e tu
mi accoglierai, come hai sempre fatto, tra le tue lunghe braccia”. Francesca.






Antonio Giovanni Mellone
Antonio attraverso l’arte cerca la madre in tutte le donne che rappresenta. “Femminile plurale” è il suo ultimo progetto, uno sguardo al mondo delle donne nella sua coralità: le tele rappresentano volti o intere figure di donne nelle cui espressioni si può riconoscere il femmineo, tutto insieme, una pluralità di sentimenti che appartengono alla Donna per definizione, ma che, scandagliati uno per uno, ne raccontano l’essenziale unicità.
Antonio aveva otto anni quando fu portato a Roma, al Teatro Sistina, a vedere la Madama Butterfly: il finale per lui fu un’epifania. “Non morire!” implorava a gran voce il piccolo al soprano nella parte della suicida per amore. Ed è l’amore che muove la creazione della sua prima opera: in un disegno fatto due anni dopo, il bambino sceglie di mettere in scena proprio quell’evento teatrale cui aveva assistito. Ora quel disegno è esposto in un museo di Kyoto, in Giappone. Che ne sarà di Antonio, ragazzo, votato all’arte pittorica, pregno di studi classici, in lotta con la sua famiglia che non ha mai gradito la sua carriera artistica? Anche la madre non ha mai approvato, ma non è solo per questo che il pittore ne “ripudierà” l’affetto. A dispetto di un uomo sensibile e incline all’arte in ogni sua forma, la madre era rigida, molto dura, ostinata. Di contro, sarà la nonna materna ad essere foriera – per lui – di sentimenti e fonte di ispirazione, una donna dolcissima che il nostro amerà per sempre di un amore sviscerato. E forse è per questo che Antonio ama ritrarre il mondo femminile: una tensione continua verso l’archetipo di Madre. Ed ecco che tornano i ritratti di donne nel suo ultimo progetto artistico:
“Le donne dei mie quadri sono quasi sempre pensose; oppure riflettono. Non sorridono mai, sono avviluppate in un mondo interiore che difficilmente cogliamo”. Non sono mai donne reali, anche se dalla realtà l’artista prende continuamente spunto. E ancora “Le donne hanno quell’eleganza tutta naturale, non c’è nulla di formale in loro, sono naturalmente raffinate nelle loro movenze. Mi metto in ascolto e osservo il loro stile e ne traggo spunto per le mie tele”.
C’è un punto di vista molto, ma molto interessante che Antonio rivela con una certezza coriacea, in modo del tutto disinvolto, quel punto di vista proprio di chi conosce talmente bene il mondo femminile che riesce a dare più che un parere anche sull’universo maschile. Ed ecco che, quello di Antonio, è un messaggio, forse una predizione: “l’uomo, in senso ‘essere maschile’, se fragile, è portato alla violenza: la causa del suo essere violento, a volte, è la sua stessa fragilità da cui scaturisce il desiderio di vendetta. È solo comprendendo ed esaltando il mondo femminile che l’uomo può riscattare la propria natura talvolta portata alla violenza di genere. “Qual è la tela alla quale sono più legato? Bene, è un dipinto, che – appunto – ritrae la violenza, o meglio, il momento immediatamente successivo al quale una donna ha subito un abuso fisico. La ritraggo riversa su se stessa, occhi spaesati, non un cenno di espressività nel volto vuoto, si tiene con una mano un brandello del suo vestito, unica nota di colore in un dipinto che è una scala di grigi, un bianco e nero soffocato nell’assenza di umanità”. Si potrebbe dire che il cerchio si chiude, eppure, quella di Antonio è una visione consolatoria, quasi catartica, archetipica come detto, un messaggio denso di significazioni. Rivolgendosi alle donne, quelle reali, quelle che straripano dalla tela in tutta la loro traboccante grazia, Antonio lancia un monito: “non rinunciate mai alla vostra femminilità, femminile non è ‘debole’ ”.
Da qui “Femminile Plurale”. Insieme e per ciascuna.
Giornalista professionista, Antonio Giovanni Mellone, classe 1949, è di origini salentine, radici che lo puntano ben saldo a terra nonostante per lavoro e per amore sia vissuto per oltre quarant’anni tra Parma, Milano e Roma. Ora è in Toscana – Versilia – pittore a tempo pieno: nel suo atelier abbraccia mondi che ha avuto occasione di conoscere molto bene, e dà vita a progetti artistici importanti, persino ad una tecnica tutta sua, il “luminismo”, con giochi di luce, trasparenze e chiaroscuri, attraverso stratificazioni di materiali diversi.
Nel corso del suo iter artistico, il pittore/giornalista ha ottenuto numerosi riconoscimenti.
Sue opere si trovano in collezioni private e pubbliche anche all’estero, come in Giappone, Inghilterra, Francia e Svizzera.
Predilige i colori acrilici che sovrappone, senza quasi mai mescolarli, con il pennello a secco, pur non disdegnando inchiostri e acquerelli.






Sukran
“Sukran Fatima, ora è in luogo sicuro, protetto. Stia tranquilla, siamo tutti qui per lei e per i suoi bambini”.
Fatima è nome di fantasia e Giacomo parla con lei attraverso la mediatrice culturale, ma alla fine preferisce rompere la barriera linguistica che ha caratterizzato tutti i loro incontri; e dice sukran. “grazie” in arabo. Grazie per aver raccontato, per essersi esposta e aver violato il pudore, e per aver avuto finalmente il coraggio di dire basta e denunciare il marito che da anni metteva in atti nei suoi confronti diversi tipi di violenze.
È difficile parlare di certe cose. E in alcune culture lo è ancora di più, soprattutto se di fronte si ha un uomo.
“Un’ultima domanda”, sempre utilizzando la grammatica della mediatrice – Giacomo sa essere empatico con i suoi interlocutori e anche molto curioso – “Da quanto è in Italia?” “Sei anni”.
“Perché non ha mai imparato l’italiano in questi sei lunghi anni? Non solo per lei, per i suoi figli…”
Forse è una domanda retorica, ma anche legittima: Fatima non conosce che pochissime parole della lingua italiana e le mastica in modo confuso, non le padroneggia, piuttosto ne è vinta e i cavilli burocratici in cui ora è avviluppata non la lasciano respirare. Si chiama violenza assistita quella alla quale i suoi due figli sono stati costretti ad assistere per oltre due anni, violenza perpetrata su di lei da un marito violento. E ora, sorte beffarda, da vittima potrebbe diventare involontaria “complice” per aver fatto assistere i suoi figli alle continue violenze subite. Tutto ciò potrebbe aver causato nei figli danni “invisibili”, ma profondi, difficili da sanare.
Fatima ora è in casa con i suoi figli: ha rotto il silenzio qualche tempo fa e, benché non parli italiano, ha chiesto aiuto. Sono stati attivati una serie di servizi a sostegno del nucleo familiare e un procedimento penale a carico del marito. È stato disposto l’allontanamento di quest’ultimo dalla residenza familiare con divieto di avvicinamento nei luoghi frequentati da Fatima e dai bambini.
Ora si farà di tutto affinché Fatima possa rimanere nella sua casa con i suoi ragazzi, in sicurezza.
È la prassi: quando la vittima denuncia, viene attivata una procedura a tutela dei minori, ed è qui che entra in gioco Giacomo, nominato dal Tribunale dei Minorenni quale curatore speciale a tutela degli interessi di questi ultimi.
Siamo sicuri che Fatima abbia fatto la scelta migliore per se stessa ma soprattutto per i suoi figli.
Quella di Fatima è una storia come tante. Non è solo una storia di violenza fisica, c’è una forma di violenza subdola: si chiama isolamento.
Quando Giacomo le ha chiesto perché non avesse imparato l’italiano, lei ha semplicemente risposto che il marito non la faceva mai uscire di casa, che lei non poteva avere contatti con persone fuori dell’ambito domestico, salvo andare a fare la spesa accompagnata dal marito. Soltanto casa e figli. Una chiusura forzata al mondo durata per anni.
È ora che Fatima riprenda in mano la sua vita.
Giacomo Mancini è avvocato civilista, in particolar modo si occupa di diritto di famiglia (separazione e divorzi); iscritto da anni, quale avvocato, all’elenco dei tutori e curatori speciali presso il Tribunale per i Minorenni dell’Umbria. È pertanto nominato nei vari procedimenti dinanzi al suddetto Tribunale come tutore o curatore speciale, appunto, di minori che vivono in famiglie disfunzionali in cui la responsabilità genitoriale è mal esercitata in maniera tale da creare pregiudizio alla prole.
Dal 2003 è anche consulente legale di una casa famiglia – comunità socio/educativa a ciclo residenziale – che ospita minori e ragazze madri.
Giacomo è accanto alle donne che subiscono. Viene spesso coinvolto in convegni ed incontri aventi ad oggetto la tutela nei casi di violenze di genere, familiari e violenza indiretta. Insieme alla Commissione Pari Opportunità del Comune di Gubbio – unitamente ad una collega penalista – si è fatto promotore di incontri pubblici itineranti nel territorio eugubino aventi oggetto la tutela della vittima della violenza intra-familiare, sia sotto il profilo della tutela penale, sia sotto il profilo della tutela civile. Questi, alcuni dei convegni: “Amore malato. Sostegno e tutela”. “Questa è violenza? Forme di violenza e strumenti di tutela”. “Che colpa ho io?”
L’obiettivo di questi incontri aperti al pubblico è proprio parlare ai cittadini, sensibilizzarli sul tema, far conosce le varie forme di violenza esistenti (economica, assistita, fisica, indiretta, psicologica, religiosa, l’isolamento…) e dire loro che denunciare è un dovere, non solo per se stessi ma anche per i propri figli e le proprie figlie. Giacomo e la collega spiegano cosa si deve fare, cosa si può fare e soprattutto a chi ci si può rivolgere.
Il suo lavoro è da sempre al fianco dei soggetti fragili. Delle donne e dei minori.






Prima che nella pancia, l’utero è nella testa
S. ora ha quasi quasi quarantanni. Ha un bambino bellissimo che sprizza salute. Fosse stato per il suo ginecologo questo bimbo non sarebbe mai nato.
A soli 27 anni a S. è stato consigliato di togliere l’utero. S. soffriva di fibromatosi uterina. Una donna su quattro ne soffre: i fibromi sono tumori benigni che
possono misurare parecchi cm, possono ostacolare una gravidanza e/o minacciare lo stato di salute di una donna fino alla menopausa.
La storia di S. è la storia di tante donne alcune delle quali – oggi – si rivolgono ai radiologi interventisti, come il Dottor Morucci del reparto di radiologia interventistica del San Camillo di Roma, per chiedere il trattamento dei fibromi con l’ “embolizzazione”. Non tutte le donne hanno la fortuna di imbattersi in un uomo di tale caratura: la maggior parte dei ginecologici e delle ginecologhe, professionisti di riferimento per il mondo femminile, non propone
l’embolizzazione; non solo, talvolta non la conoscono neppure, più spesso la osteggiano, asserendo che non né efficace né risolutiva. Se in America e in Gran Bretagna, per esempio, questa tecnica la si sceglie di concerto al proprio ginecologo, con gran soddisfazione da parte delle pazienti, in Italia vengono ancora proposte le terapie ormonali, la miomectomia (nel migliore delle ipotesi) e l’isterectomia, cioè la rimozione chirurgica di tutto l’utero. Quest’ultima alternativa è soprattutto offerta a donne non più giovanissime che hanno già avuto una o più gravidanze, come se l’utero servisse solo alla procreazione, dimenticando che è alla base di una serie di funzionalità della donna.
E così siamo andate proprio da lui, M. Morucci, attivo in prima linea nel diffondere la conoscenza di questa pratica davvero efficace nel trattamento della fibromatosi uterina. «L’ “utero, prima che nella pancia è nella testa” dice un mio amico psichiatra». Secondo M. l’utero della donna (se si può) va preservato fino all’ultimo: anche qualora la paziente non sia più in età fertile, non si può rimuovere un organo così importante per il suo benessere psico-fisico: al di là
dell’insorgenza di possibili complicanze di natura fisica (prolasso, infezioni, calo della libido, ecc.), la rimozione totale è sempre considerata dalla donna una mutilazione grave della propria femminilità con conseguenze drastiche a livello psicologico.
Maurizio tratta anche fibromi di grandi dimensioni con notevole successo, molto preparato sull’argomento, spiega alla propria paziente con dovizia di particolari il margine di riuscita che avrà il trattamento. Recidive? Assai rare e, nel caso ci siano, il fibroma può essere trattato di nuovo.
Questo è un fattore da considerare soprattutto per quelle donne giovani che, proprio perché tali, sono possibili “vittime” di ricaduta – perché i fibromi si riformano soprattutto in chi è predisposta. Attivista e unico uomo “co-amministratore” di un gruppo virtuale di sole donne nato con lo scopo di
diffondere notizie in fatto di embolizzazione per consentire di affrontare una scelta serena e consapevole tra più alternative offerte dalla medicina (ponderando rischi e benefici), il dottor M. non si limita a “fare il medico”. È consigliere, ascoltatore, confidente, insomma, uno di quei medici la cui umanità va ben oltre l’aspetto professionale. È quindi successo che offre consulti gratuiti anche telefonici, accoglie donne in lacrime con fibromi enormi e trova loro uno spazio per eseguire il trattamento in urgenza (con il sistema sanitario nazionale!); gli capita anche di dare consigli sull’alimentazione per chi ha
problemi con l’emoglobina (e chi di queste donne non ce l’ha?). Dunque, la sua è una vera e propria missione: salvare l’utero di una donna, laddove sia fattibile, restituendole allo stesso tempo anche la femminilità. La scrivente, dopo il trattamento con l’embolizzazione, ha ricominciato a portare i tacchi e a
indossare le gonne. Perché l’utero è davvero nella testa. L’embolizzazione è una tecnica mininvasiva praticata da sola o a completamento di un intervento chirurgico, e si esegue per ridurre sanguinamenti/bloccare emorragie. Consiste nell’occlusione selettiva di uno o più vasi sanguigni, attraverso l’iniezione di materiale autologo o micro-particelle embolizzanti; l’accesso avviene tramite all’arteria femorale, sotto il controllo della strumentazione angiografica e in anestesia parziale. Già nota quindi – e praticata – nel mondo medico, fu eseguita su pazienti donne affette da fibromatosi alla fine degli anni Novanta. Proprio con l’obiettivo di ridurre i sanguinamenti di pazienti inoperabili a causa dell’eccessiva carenza di ferro (cosa che in sala operatoria aumenta il rischio di complicanze per i principali organi vitali), quasi contemporaneamente in America e in Francia fu praticata questa tecnica in alternativa ai metodi tradizionali.
Nella prima donna sottoposta all’embolizzazione si scoprì, nel decorso del post-trattamento, che il fibroma non solo aveva smesso di sanguinare ma diminuiva di volume e tendeva a necrotizzare. Nel giro di sei mesi/un anno i fibromi si riducono, in media, del 40% e muoiono, non costituendo più un
problema di salute per la paziente. Perché dunque non proporre anche questa tecnica a chi, pur con utero fibromatoso, è in cerca di una gravidanza e/o a chi ha una sintomatologia importante legata a questa patologia?